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martedì 2 dicembre 2014

Le notti dell'anima - parte 2

Aveva iniziato a parlarmi appena ero uscita dall'aeroporto. Erano quasi le dieci di sera ed ero appena arrivata a Linate. Lui mi era venuto a prendere per accompagnarmi in hotel e poi l'indomani mi avrebbe fatto da autista per accompagnarmi tra una riunione e l'altra tra Milano e il suo hinterland.
Ero stanca quella sera e non avevo voglia di conversare, tanto meno mi ero mostrata disponibile ai convenevoli. Allora perché aveva deciso di raccontarmi la sua storia? Cosa si aspettava? Fu la mia rassegnata stanchezza ad incoraggiarlo o sentiva di doversi raccontare proprio quella notte?
Lui era divorziato e aveva una figlia di nome Elena. Da quando aveva perso il suo primo lavoro e non aveva potuto più provvedere adeguatamente alla propria famiglia, di fatto aveva perso anche il diritto di vedere regolarmente la figlia. L'ex moglie, Anna, non gli perdonava quel carattere indolente e fatalista che aveva sviluppato dopo l'incidente occorsogli da adolescente. Giocava a pallone con dei suoi amici quando il pallone uscì fuori dal campetto improvvisato allestito nel giardino pubblico e lui corse in strada a recuperarlo. Fu un attimo. Una macchina non fece in tempo a frenare e lui si ritrovò la sua gamba sotto la ruota. Di lì la prima operazione alla gamba sinistra non perfettamente riuscita e poi un'altra per ovviare alla prima e infine un'altra ancora, finché fu chiaro che, sebbene la mobilità fosse stata preservata, non altrettanto poteva dirsi dello sviluppo dell'arto che era rimasto quello di un tredicenne.
Non poteva dirsi un disabile ma certo si sentiva tutt'altro che "normodotato". A distanza di 3 anni dall'incidente e dopo una causa civile, l'assicurazione gli aveva riconosciuto un indennizzo di 50 milioni delle vecchie lire. Rispetto ai suoi coetanei poteva vantare un bel gruzzoletto, su cui però non aveva potuto mettere le mani perché vincolato dai genitori al conseguimento della laurea.
Lui si iscrisse all'università con poca convinzione, scelse psicologia quasi a volersi curare da solo quelle ferite invisibili che gli erano rimaste dentro.
Psicologicamente scontava ancora il trauma di quell'incidente che viveva come un segno premonitore di un destino nient'affatto luminoso. E tuttavia, l'arto meno sviluppato non gli aveva impedito di mietere conquiste tra il gentil sesso. Ogni conquista la sentiva come una rivalsa, una prova della sua intatta prestanza fisica accompagnata da una sfrontata esuberanza dialettica che lo portava a ironizzare sulla sua femminea gamba sinistra. Anche Anna, la sua ex moglie, era stata irretita da questo fascino inusuale e contorto, un misto di forza e fragilità che l'aveva resa più sicura, più volitiva, più risoluta. Si erano sposati dopo due anni e mezzo di convivenza appena appreso di essere incinta. Al quarto mese di gravidanza, Anna De Ritis 35enne convolò a nozze con Giorgio Veltri 36enne. Scelsero un rito civile e festeggiamenti agresti con amici e parenti.
Lei lavorava come infermiera in un ospedale ed i suoi ritmi biologici erano condizionati dai turni, spesso notturni, cui veniva sottoposta.
Lui nel frattempo non si era laureato, aveva fatto un corso specialistico come assistente sociale e di comunità e aveva trovato occupazione in uno sportello di prima accoglienza.
Di lì passava di tutto. Ero un centro di smistamento di ogni disagio ed esclusione sociale: drogati, immigrati, alcolisti, indebitati, sieropositivi, schiave, prostitute, disoccupati e una nuova categoria che si faceva sempre più ampia: i cosiddetti nuovi poveri.
Fu proprio questo continuo venire a contatto con la disperazione degli altri che produsse in lui come anticorpo, un rassegnato senso di fugacità ed ineluttabilità che ne imbrigliava ogni energia e ogni slancio.
Giorno dopo giorno questa dose di disperazione assorbita dagli altri si era trasformata in una spina esistenziale, in un pessimismo irreversibile e in uno stato di silente sconforto.
Sua figlia Elena era l'unica luce nel buio scavato nell'anima. Mentre la moglie faceva i turni di notte, lui vegliava su di lei. Fu così che iniziò a considerare le notti come i suoi veri giorni. Amava vederla giocare, sorridere e crescere. Era la sua unica fede nel futuro, un futuro stanco e asfittico, fatto di giorni uguali e senza nome.

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