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mercoledì 3 dicembre 2014

Le notti dell'anima - finale


La prima tappa del suo esilio forzato sarebbe stata casa dei genitori dove sperava di stare  solo il tempo necessario alla ricerca di un nuovo lavoro. Non aveva pretese, perciò guardò annunci di tutti i tipi, per cameriere, commesso, portiere, fattorino, ma i suoi colloqui non andarono a buon fine. Gli mancava sempre qualcosa. Dopo due mesi di infruttuosa ricerca, grazie all'interessamento di un suo amico, trovò lavoro in un'agenzia di noleggio auto. La sua attività consisteva nel consegnare i veicoli ai clienti, espletare le formalità burocratiche, accertarsi delle condizioni del veicolo al momento della consegna. In alternativa, era chiamato a prendere ed accompagnare facoltosi turisti o uomini d'affari nei loro spostamenti.
Quando mi raccontò la sua storia erano trascorsi già 4 anni dall'abbandono forzoso della sua casa ed erano quasi 3 anni che non beveva più. Io ero a Milano per seguire un progetto per Expo 2015 e la mia società mi aveva messo a disposizione questo servizio di noleggio con conducente per la mia trasferta meneghina.
Il suo racconto occupò tutto il tempo del trasferimento in auto fino all'hotel e proseguì anche mentre mi prendevo una camomilla nel lounge bar prima di salire in camera.
Durante la notte ebbi modo di ripensare alla sua storia, una storia di ordinaria disperazione come ce ne sono ormai tante. Tacite oppure urlate, nascoste o manifeste, da quelle che fanno pettegolezzo a quelle che diventano fatti di cronaca. Giorgio purtroppo era solo uno dei tanti. "Spesso il male di vivere ho incontrato" scriveva Montale. Anch'io mi trovo spesso di fronte a perdite di senso, estranea alla realtà e a me stessa. Anch'io convivo con forme di quieta disperazione che mimetizzo in giornate dai ritmi convulsi. Anch'io a volte mi perdo. Anche ora, prima di addormentarmi, fatico a delimitare i contorni tra la mia vita e quella degli altri.
Di solito mi ricongiungo a me stessa ogni mattina. E quella mattina lui, dopo avermi accompagnata nei vari appuntamenti e riunioni, stranamente silenzioso e professionale, mi chiese se era possibile prendere almeno un caffè con lui prima di riportarmi in aeroporto la sera. Mi sembrò naturale acconsentire, anche perché volevo cogliere il senso di quell'incontro, di quella storia o forse, lo confesso, ero curiosa di scoprire se c'era un finale.
Ebbene il finale non c'era. Ci fu solo un commiato e il tentativo di spiegare perché proprio io fossi stata oggetto del suo sfogo-racconto.
Lui mi disse che appena mi aveva visto era stato colpito dalla mia luce. Non sapeva dare una spiegazione razionale, era una percezione forte, sentita a pelle, proprio da chi come lui alla luce aveva chiuso le porte per tanti anni. Per molto tempo si era sentito annegare nella notte, nel buio delle proprie paure ed insicurezze. La notte lungi dal ristorare le fatiche e le ansie accumulate durante il giorno, risucchiava le sue forze e ne piegava le speranze e la volontà.
"Per molto tempo non ho voluto dare un nome a questo male. Ho iniziato a chiamarlo insonnia, poi disincanto, smarrimento, finché mi è stato chiaro che ero in un tunnel, prigioniero di me stesso e della mia non volontà. Mi accontentavo di esistere e mi sforzavo di resistere, ma la vita era sempre ad un passo da me e mi sbeffeggiava. Ho creduto di poter trovare la forza di risollevarmi nel sorriso di mia figlia, ma neanche quello alla lunga poteva bastarmi. Era più giusto che i suoi sorrisi fossero rivolti al sole e non ad un padre fragile, ripiegato su se stesso, prigioniero della notte della sua anima.
Due sere fa, prima che mi fosse assegnato il servizio di venirti a prendere, mi sono guardato allo specchio e mi sono vomitato tutta la verità. Non riuscendo ad intravedere con razionalità soluzioni, luci, vie di fuga, allora mi sono affidato semplicemente all'istinto. Mi sono detto che dovevo partire, per perdermi forse ma soprattutto per ritrovarmi. Dovevo affrontare il cammino e cercare in quello il senso del mio andare, ritrovare la fede in qualcosa che da troppi anni non c'era più.
Il tempo dei saluti si fece pressante e la chiamata del volo fu annunciata. Non sapevamo bene come lasciarci, io impacciata mi lanciai in una stretta di mano vigorosa, preludio di un abbraccio. Lui, trattenendomi la mano si congedò da me con queste parole: "Vedi, la vera perdita per me non è stata il lavoro, la famiglia, la quotidianità con mia figlia. Quelle sono solo conseguenze della mia perdita iniziale, l'estraniamento da me stesso. Mi sono smarrito quando ero ancora adolescente e fatico tuttora a ritrovarmi. Ora come ora desidero solo avere del tempo per non fare nulla se non ascoltare il silenzio e riprendere il dialogo con me stesso. Oggi è il mio ultimo giorno di servizio. Anch'io ho un biglietto aereo e domani partirò per Bilbao dove da lì mi metterò in cammino verso Santiago de Compostela. Spero che camminare da solo, sentire la stanchezza, superarla e provare di nuovo dentro di me il senso di una meta, mi permetta di fare pace con me stesso e di riabbracciarmi finalmente nella mia interezza: chi sono stato, chi sono, chi vorrò essere. Grazie per avermi ascoltato e per essere stata partecipe di questo mio primo passo verso un nuovo giorno".

Le notti dell'anima - parte 3


Fu in uno di questi giorni come tanti che il sentirsi estraneo alla realtà lo fecero abdicare, si sentii disarmato e volle concedersi un pomeriggio di svago con sua figlia. Chiese un permesso di 3 ore e la andò a prendere a casa. Sua moglie fu ben felice di avere più tempo da dedicare a sè quel pomeriggio e affidò senza riserve la piccola al marito.
Andarono al parco e la fece andare sull'altalena, sugli scivoli, sui cavallucci e sulla giostra, le comprò il gelato e le chiese cosa volesse fare da grande. Lei rispose timidamente "la ballerina" e il suo cuore di padre si sciolse come burro al sole prima di stringerla, baciarla e sollevarla in aria. Lei rideva era felice e saltava, sgambettava e piroettava imitando le ballerine con il tutù. Anche lì fu un attimo. L'euforia dei volteggi la fecero girare su se stessa come una piccola trottola e non si accorse nemmeno del calcio in pieno viso inferto dal ragazzo sull'altalena. Cadde a terra tramortita, non riusciva a piangere e teneva la bocca aperta, senza emettere suoni, con gli occhi spalancati a cercare nel vuoto una risposta, una spiegazione, prima di trovarla nello sguardo del padre chino su di lei che la rassicurava e le prendeva la testa tra le mani. Fu portata di corsa al pronto soccorso dove tra pianti e urla di paura le misero 16 punti tra la tempia e l'arcata sopracciliare. Fu una notte da incubo. Mentre aspettava che gli riconsegnassero la figlia, Giorgio ripercorse mentalmente tutte le sue vicissitudini ospedaliere. I suoi traumi erano lì intatti e l'anima aveva assunto la forma di quella sua gamba esile, appesa a un corpo senza più tensione muscolare. 
Giorgio era a pezzi, sentiva il peso del suo destino incombere come una colpa, colpa che non gli fu sottratta dalla moglie che anzi lo ritenne il principale responsabile dell'accaduto. La negligenza pertanto fu usata come leva per alterare definitivamente gli equilibri familiari.
Da allora i rapporti peggiorarono. Al già sfiancante senso di prostrazione e fatalismo, si aggiunse la sfiducia dei suoi familiari più stretti. Non lo ritenevano abbastanza forte, non era lui il perno della famiglia, la figura salda su cui si poteva fare affidamento. Così lentamente ma inesorabilmente fu messo ai margini e raramente coinvolto e consultato su questioni importanti. Le scelte venivano prese altrove, da sua moglie o dai genitori di lei e lui si trovò a svolgere un ruolo appena da comprimario. Aveva un unico compito, provvedere economicamente alla famiglia.
La piccola Elena cresceva e nonostante l'adorazione per il papà, viveva secondo le regole e i tempi dettati dalla madre che, con poca tenerezza ed indulgenza, educava rigidamente la bambina.
Giorgio iniziò a bere quando era ancora pressoché astemio e aveva appena compiuto 42 anni. Si sbronzò uscendo la sera con i suoi amici per festeggiare il suo compleanno dopo aver assunto appena 3 bicchieri di vino rosso.
Fu riaccompagnato a casa alle 2 di notte da una sua collega, Serena, e la moglie Anna si insospettì non poco per tale situazione di cui però non colse fino in fondo la portata ed il sentore.
Da allora lui iniziò a ritardare il rientro a casa con sempre nuove scuse ma non per andare a letto con la collega Serena, con cui peraltro aveva intrecciato nelle pause di lavoro una liason dangerouse, ma per immergersi nell'amnios dell'alcool.
Frequentava indistintamente baretti da quattro soldi così come enoteche, dicendo a se stesso che era solo un modo per rilassarsi e distendere i nervi dopo una giornata logorante a base di disperazione mista.
Fu però solo in una notte di luglio che tutti i nodi vennero al pettine. Era passata mezzanotte ed era sbronzo fino al midollo, barcollante ma ancora con residui di coscienza, temendo le furie di sua moglie Anna, non prese la strada di casa ma si parcheggiò nell'ufficio tra le scartoffie.
La mattina si svegliò lì col capo riverso sulla scrivania incapace di connettere e ricordare. Provò a sciacquarsi con l'acqua gelata, a prendersi a schiaffi ma fu tutto inutile. I colleghi lo guardarono girare su se stesso 2 o 3 volte prima di cadere a terra e addormentarsi. Fu l'oblio ma anche l'inizio della fine. Ad un operatore di un help desk non poteva essere consentito di tenere comportamenti riprovevoli che inducessero il cattivo esempio su utenti già afflitti da precarietà e sconforto. Fu richiamato formalmente due volte prima di ricevere in mano la lettera di licenziamento.
Con quella lettera stretta in pugno e lo sguardo perso nel vuoto come quello di sua figlia Elena dopo il calcio preso dal bambino sull'altalena, si confessò alla moglie nel buio della camera da letto. Erano le 23,30 quando ruppe il silenzio.
"Sono stato licenziato. In ufficio hanno scoperto il mio problema di dipendenza dall'alcool. Perciò da assistente sociale mi hanno declassato ad utente dello sportello. Non ho scuse, non ho alibi, ho solo disperazione. La stessa che ha attraversato i miei giorni durante i miei 6 anni di lavoro allo sportello."
Anna non ebbe esitazioni. Gli chiese di allontanarsi da casa per il bene della figlia Elena. Lui non battè ciglio. Chiese solo di poter dormire qualche ora prima di prepararsi ad andare fuori di casa.

martedì 2 dicembre 2014

Le notti dell'anima - parte 2

Aveva iniziato a parlarmi appena ero uscita dall'aeroporto. Erano quasi le dieci di sera ed ero appena arrivata a Linate. Lui mi era venuto a prendere per accompagnarmi in hotel e poi l'indomani mi avrebbe fatto da autista per accompagnarmi tra una riunione e l'altra tra Milano e il suo hinterland.
Ero stanca quella sera e non avevo voglia di conversare, tanto meno mi ero mostrata disponibile ai convenevoli. Allora perché aveva deciso di raccontarmi la sua storia? Cosa si aspettava? Fu la mia rassegnata stanchezza ad incoraggiarlo o sentiva di doversi raccontare proprio quella notte?
Lui era divorziato e aveva una figlia di nome Elena. Da quando aveva perso il suo primo lavoro e non aveva potuto più provvedere adeguatamente alla propria famiglia, di fatto aveva perso anche il diritto di vedere regolarmente la figlia. L'ex moglie, Anna, non gli perdonava quel carattere indolente e fatalista che aveva sviluppato dopo l'incidente occorsogli da adolescente. Giocava a pallone con dei suoi amici quando il pallone uscì fuori dal campetto improvvisato allestito nel giardino pubblico e lui corse in strada a recuperarlo. Fu un attimo. Una macchina non fece in tempo a frenare e lui si ritrovò la sua gamba sotto la ruota. Di lì la prima operazione alla gamba sinistra non perfettamente riuscita e poi un'altra per ovviare alla prima e infine un'altra ancora, finché fu chiaro che, sebbene la mobilità fosse stata preservata, non altrettanto poteva dirsi dello sviluppo dell'arto che era rimasto quello di un tredicenne.
Non poteva dirsi un disabile ma certo si sentiva tutt'altro che "normodotato". A distanza di 3 anni dall'incidente e dopo una causa civile, l'assicurazione gli aveva riconosciuto un indennizzo di 50 milioni delle vecchie lire. Rispetto ai suoi coetanei poteva vantare un bel gruzzoletto, su cui però non aveva potuto mettere le mani perché vincolato dai genitori al conseguimento della laurea.
Lui si iscrisse all'università con poca convinzione, scelse psicologia quasi a volersi curare da solo quelle ferite invisibili che gli erano rimaste dentro.
Psicologicamente scontava ancora il trauma di quell'incidente che viveva come un segno premonitore di un destino nient'affatto luminoso. E tuttavia, l'arto meno sviluppato non gli aveva impedito di mietere conquiste tra il gentil sesso. Ogni conquista la sentiva come una rivalsa, una prova della sua intatta prestanza fisica accompagnata da una sfrontata esuberanza dialettica che lo portava a ironizzare sulla sua femminea gamba sinistra. Anche Anna, la sua ex moglie, era stata irretita da questo fascino inusuale e contorto, un misto di forza e fragilità che l'aveva resa più sicura, più volitiva, più risoluta. Si erano sposati dopo due anni e mezzo di convivenza appena appreso di essere incinta. Al quarto mese di gravidanza, Anna De Ritis 35enne convolò a nozze con Giorgio Veltri 36enne. Scelsero un rito civile e festeggiamenti agresti con amici e parenti.
Lei lavorava come infermiera in un ospedale ed i suoi ritmi biologici erano condizionati dai turni, spesso notturni, cui veniva sottoposta.
Lui nel frattempo non si era laureato, aveva fatto un corso specialistico come assistente sociale e di comunità e aveva trovato occupazione in uno sportello di prima accoglienza.
Di lì passava di tutto. Ero un centro di smistamento di ogni disagio ed esclusione sociale: drogati, immigrati, alcolisti, indebitati, sieropositivi, schiave, prostitute, disoccupati e una nuova categoria che si faceva sempre più ampia: i cosiddetti nuovi poveri.
Fu proprio questo continuo venire a contatto con la disperazione degli altri che produsse in lui come anticorpo, un rassegnato senso di fugacità ed ineluttabilità che ne imbrigliava ogni energia e ogni slancio.
Giorno dopo giorno questa dose di disperazione assorbita dagli altri si era trasformata in una spina esistenziale, in un pessimismo irreversibile e in uno stato di silente sconforto.
Sua figlia Elena era l'unica luce nel buio scavato nell'anima. Mentre la moglie faceva i turni di notte, lui vegliava su di lei. Fu così che iniziò a considerare le notti come i suoi veri giorni. Amava vederla giocare, sorridere e crescere. Era la sua unica fede nel futuro, un futuro stanco e asfittico, fatto di giorni uguali e senza nome.

Le notti dell'anima - Racconto


Ci sono notti che non hanno niente a che vedere con quella parte romantica, misteriosa e sensuale del giorno, sono solo spazi bui dentro i quali si rifugiano alcune anime ferite che temono la luce, il calore, che abbracciano le ombre per sfuggire a se stesse o al proprio destino.
Certe notti segnano il letargo dell'anima, a volte avviene per un accadimento concreto, uno choc, un trauma, altre volte è solo un lento ma inesorabile scivolamento verso quella strana affezione chiamata melanconia.
Io le notti oscure le ho iniziate a curare con la scrittura. Tra le pieghe del dolore, nella ghigliottina di silenzi assordanti, piegata nel vuoto dalla pesante zavorra dei pensieri, ho trovato la forza di innestare dei piccoli germogli, le mie parole. Scrivere è diventato così un modo per riempire quei buchi neri dell'anima che riecheggiavano nelle mie notti insonni.
Normalmente scrivo per ascoltarmi, per narrarmi la vita che è o vorrei, per lasciare tracce o semplicemente per aprirmi un varco nel tempo e rallentare il flusso cui appartengo. Ma quella notte di fine agosto la curva del tempo virò bruscamente oltre i miei pensieri e mi persi dentro il racconto di un altro. Era il racconto di una resa, di una fuga, di un eclissi dal mondo. Lo imboccai quasi incosciente e mi confusi sulla scia di quei passi non miei. Quella notte indossai il suo destino e la sua volontà indolente. Lui sorrideva disincantato e mi parlava come se mi conoscesse da sempre, come se mi aspettasse da tempo. Non gli importava null'altro che il presente. "Ho perso tutto - mi disse - ed ho visto l'inferno. Oggi mi sento padrone solo del mio nome, del mio aspetto e di questo biglietto aereo che spero mi porti verso un nuovo destino, il più lontano possibile da ciò che sono stato ".
Non so perché ma mi aveva scelto, mi voleva come testimone della sua storia...
To be continued