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mercoledì 3 dicembre 2014

Le notti dell'anima - finale


La prima tappa del suo esilio forzato sarebbe stata casa dei genitori dove sperava di stare  solo il tempo necessario alla ricerca di un nuovo lavoro. Non aveva pretese, perciò guardò annunci di tutti i tipi, per cameriere, commesso, portiere, fattorino, ma i suoi colloqui non andarono a buon fine. Gli mancava sempre qualcosa. Dopo due mesi di infruttuosa ricerca, grazie all'interessamento di un suo amico, trovò lavoro in un'agenzia di noleggio auto. La sua attività consisteva nel consegnare i veicoli ai clienti, espletare le formalità burocratiche, accertarsi delle condizioni del veicolo al momento della consegna. In alternativa, era chiamato a prendere ed accompagnare facoltosi turisti o uomini d'affari nei loro spostamenti.
Quando mi raccontò la sua storia erano trascorsi già 4 anni dall'abbandono forzoso della sua casa ed erano quasi 3 anni che non beveva più. Io ero a Milano per seguire un progetto per Expo 2015 e la mia società mi aveva messo a disposizione questo servizio di noleggio con conducente per la mia trasferta meneghina.
Il suo racconto occupò tutto il tempo del trasferimento in auto fino all'hotel e proseguì anche mentre mi prendevo una camomilla nel lounge bar prima di salire in camera.
Durante la notte ebbi modo di ripensare alla sua storia, una storia di ordinaria disperazione come ce ne sono ormai tante. Tacite oppure urlate, nascoste o manifeste, da quelle che fanno pettegolezzo a quelle che diventano fatti di cronaca. Giorgio purtroppo era solo uno dei tanti. "Spesso il male di vivere ho incontrato" scriveva Montale. Anch'io mi trovo spesso di fronte a perdite di senso, estranea alla realtà e a me stessa. Anch'io convivo con forme di quieta disperazione che mimetizzo in giornate dai ritmi convulsi. Anch'io a volte mi perdo. Anche ora, prima di addormentarmi, fatico a delimitare i contorni tra la mia vita e quella degli altri.
Di solito mi ricongiungo a me stessa ogni mattina. E quella mattina lui, dopo avermi accompagnata nei vari appuntamenti e riunioni, stranamente silenzioso e professionale, mi chiese se era possibile prendere almeno un caffè con lui prima di riportarmi in aeroporto la sera. Mi sembrò naturale acconsentire, anche perché volevo cogliere il senso di quell'incontro, di quella storia o forse, lo confesso, ero curiosa di scoprire se c'era un finale.
Ebbene il finale non c'era. Ci fu solo un commiato e il tentativo di spiegare perché proprio io fossi stata oggetto del suo sfogo-racconto.
Lui mi disse che appena mi aveva visto era stato colpito dalla mia luce. Non sapeva dare una spiegazione razionale, era una percezione forte, sentita a pelle, proprio da chi come lui alla luce aveva chiuso le porte per tanti anni. Per molto tempo si era sentito annegare nella notte, nel buio delle proprie paure ed insicurezze. La notte lungi dal ristorare le fatiche e le ansie accumulate durante il giorno, risucchiava le sue forze e ne piegava le speranze e la volontà.
"Per molto tempo non ho voluto dare un nome a questo male. Ho iniziato a chiamarlo insonnia, poi disincanto, smarrimento, finché mi è stato chiaro che ero in un tunnel, prigioniero di me stesso e della mia non volontà. Mi accontentavo di esistere e mi sforzavo di resistere, ma la vita era sempre ad un passo da me e mi sbeffeggiava. Ho creduto di poter trovare la forza di risollevarmi nel sorriso di mia figlia, ma neanche quello alla lunga poteva bastarmi. Era più giusto che i suoi sorrisi fossero rivolti al sole e non ad un padre fragile, ripiegato su se stesso, prigioniero della notte della sua anima.
Due sere fa, prima che mi fosse assegnato il servizio di venirti a prendere, mi sono guardato allo specchio e mi sono vomitato tutta la verità. Non riuscendo ad intravedere con razionalità soluzioni, luci, vie di fuga, allora mi sono affidato semplicemente all'istinto. Mi sono detto che dovevo partire, per perdermi forse ma soprattutto per ritrovarmi. Dovevo affrontare il cammino e cercare in quello il senso del mio andare, ritrovare la fede in qualcosa che da troppi anni non c'era più.
Il tempo dei saluti si fece pressante e la chiamata del volo fu annunciata. Non sapevamo bene come lasciarci, io impacciata mi lanciai in una stretta di mano vigorosa, preludio di un abbraccio. Lui, trattenendomi la mano si congedò da me con queste parole: "Vedi, la vera perdita per me non è stata il lavoro, la famiglia, la quotidianità con mia figlia. Quelle sono solo conseguenze della mia perdita iniziale, l'estraniamento da me stesso. Mi sono smarrito quando ero ancora adolescente e fatico tuttora a ritrovarmi. Ora come ora desidero solo avere del tempo per non fare nulla se non ascoltare il silenzio e riprendere il dialogo con me stesso. Oggi è il mio ultimo giorno di servizio. Anch'io ho un biglietto aereo e domani partirò per Bilbao dove da lì mi metterò in cammino verso Santiago de Compostela. Spero che camminare da solo, sentire la stanchezza, superarla e provare di nuovo dentro di me il senso di una meta, mi permetta di fare pace con me stesso e di riabbracciarmi finalmente nella mia interezza: chi sono stato, chi sono, chi vorrò essere. Grazie per avermi ascoltato e per essere stata partecipe di questo mio primo passo verso un nuovo giorno".

Le notti dell'anima - parte 3


Fu in uno di questi giorni come tanti che il sentirsi estraneo alla realtà lo fecero abdicare, si sentii disarmato e volle concedersi un pomeriggio di svago con sua figlia. Chiese un permesso di 3 ore e la andò a prendere a casa. Sua moglie fu ben felice di avere più tempo da dedicare a sè quel pomeriggio e affidò senza riserve la piccola al marito.
Andarono al parco e la fece andare sull'altalena, sugli scivoli, sui cavallucci e sulla giostra, le comprò il gelato e le chiese cosa volesse fare da grande. Lei rispose timidamente "la ballerina" e il suo cuore di padre si sciolse come burro al sole prima di stringerla, baciarla e sollevarla in aria. Lei rideva era felice e saltava, sgambettava e piroettava imitando le ballerine con il tutù. Anche lì fu un attimo. L'euforia dei volteggi la fecero girare su se stessa come una piccola trottola e non si accorse nemmeno del calcio in pieno viso inferto dal ragazzo sull'altalena. Cadde a terra tramortita, non riusciva a piangere e teneva la bocca aperta, senza emettere suoni, con gli occhi spalancati a cercare nel vuoto una risposta, una spiegazione, prima di trovarla nello sguardo del padre chino su di lei che la rassicurava e le prendeva la testa tra le mani. Fu portata di corsa al pronto soccorso dove tra pianti e urla di paura le misero 16 punti tra la tempia e l'arcata sopracciliare. Fu una notte da incubo. Mentre aspettava che gli riconsegnassero la figlia, Giorgio ripercorse mentalmente tutte le sue vicissitudini ospedaliere. I suoi traumi erano lì intatti e l'anima aveva assunto la forma di quella sua gamba esile, appesa a un corpo senza più tensione muscolare. 
Giorgio era a pezzi, sentiva il peso del suo destino incombere come una colpa, colpa che non gli fu sottratta dalla moglie che anzi lo ritenne il principale responsabile dell'accaduto. La negligenza pertanto fu usata come leva per alterare definitivamente gli equilibri familiari.
Da allora i rapporti peggiorarono. Al già sfiancante senso di prostrazione e fatalismo, si aggiunse la sfiducia dei suoi familiari più stretti. Non lo ritenevano abbastanza forte, non era lui il perno della famiglia, la figura salda su cui si poteva fare affidamento. Così lentamente ma inesorabilmente fu messo ai margini e raramente coinvolto e consultato su questioni importanti. Le scelte venivano prese altrove, da sua moglie o dai genitori di lei e lui si trovò a svolgere un ruolo appena da comprimario. Aveva un unico compito, provvedere economicamente alla famiglia.
La piccola Elena cresceva e nonostante l'adorazione per il papà, viveva secondo le regole e i tempi dettati dalla madre che, con poca tenerezza ed indulgenza, educava rigidamente la bambina.
Giorgio iniziò a bere quando era ancora pressoché astemio e aveva appena compiuto 42 anni. Si sbronzò uscendo la sera con i suoi amici per festeggiare il suo compleanno dopo aver assunto appena 3 bicchieri di vino rosso.
Fu riaccompagnato a casa alle 2 di notte da una sua collega, Serena, e la moglie Anna si insospettì non poco per tale situazione di cui però non colse fino in fondo la portata ed il sentore.
Da allora lui iniziò a ritardare il rientro a casa con sempre nuove scuse ma non per andare a letto con la collega Serena, con cui peraltro aveva intrecciato nelle pause di lavoro una liason dangerouse, ma per immergersi nell'amnios dell'alcool.
Frequentava indistintamente baretti da quattro soldi così come enoteche, dicendo a se stesso che era solo un modo per rilassarsi e distendere i nervi dopo una giornata logorante a base di disperazione mista.
Fu però solo in una notte di luglio che tutti i nodi vennero al pettine. Era passata mezzanotte ed era sbronzo fino al midollo, barcollante ma ancora con residui di coscienza, temendo le furie di sua moglie Anna, non prese la strada di casa ma si parcheggiò nell'ufficio tra le scartoffie.
La mattina si svegliò lì col capo riverso sulla scrivania incapace di connettere e ricordare. Provò a sciacquarsi con l'acqua gelata, a prendersi a schiaffi ma fu tutto inutile. I colleghi lo guardarono girare su se stesso 2 o 3 volte prima di cadere a terra e addormentarsi. Fu l'oblio ma anche l'inizio della fine. Ad un operatore di un help desk non poteva essere consentito di tenere comportamenti riprovevoli che inducessero il cattivo esempio su utenti già afflitti da precarietà e sconforto. Fu richiamato formalmente due volte prima di ricevere in mano la lettera di licenziamento.
Con quella lettera stretta in pugno e lo sguardo perso nel vuoto come quello di sua figlia Elena dopo il calcio preso dal bambino sull'altalena, si confessò alla moglie nel buio della camera da letto. Erano le 23,30 quando ruppe il silenzio.
"Sono stato licenziato. In ufficio hanno scoperto il mio problema di dipendenza dall'alcool. Perciò da assistente sociale mi hanno declassato ad utente dello sportello. Non ho scuse, non ho alibi, ho solo disperazione. La stessa che ha attraversato i miei giorni durante i miei 6 anni di lavoro allo sportello."
Anna non ebbe esitazioni. Gli chiese di allontanarsi da casa per il bene della figlia Elena. Lui non battè ciglio. Chiese solo di poter dormire qualche ora prima di prepararsi ad andare fuori di casa.

martedì 2 dicembre 2014

Le notti dell'anima - parte 2

Aveva iniziato a parlarmi appena ero uscita dall'aeroporto. Erano quasi le dieci di sera ed ero appena arrivata a Linate. Lui mi era venuto a prendere per accompagnarmi in hotel e poi l'indomani mi avrebbe fatto da autista per accompagnarmi tra una riunione e l'altra tra Milano e il suo hinterland.
Ero stanca quella sera e non avevo voglia di conversare, tanto meno mi ero mostrata disponibile ai convenevoli. Allora perché aveva deciso di raccontarmi la sua storia? Cosa si aspettava? Fu la mia rassegnata stanchezza ad incoraggiarlo o sentiva di doversi raccontare proprio quella notte?
Lui era divorziato e aveva una figlia di nome Elena. Da quando aveva perso il suo primo lavoro e non aveva potuto più provvedere adeguatamente alla propria famiglia, di fatto aveva perso anche il diritto di vedere regolarmente la figlia. L'ex moglie, Anna, non gli perdonava quel carattere indolente e fatalista che aveva sviluppato dopo l'incidente occorsogli da adolescente. Giocava a pallone con dei suoi amici quando il pallone uscì fuori dal campetto improvvisato allestito nel giardino pubblico e lui corse in strada a recuperarlo. Fu un attimo. Una macchina non fece in tempo a frenare e lui si ritrovò la sua gamba sotto la ruota. Di lì la prima operazione alla gamba sinistra non perfettamente riuscita e poi un'altra per ovviare alla prima e infine un'altra ancora, finché fu chiaro che, sebbene la mobilità fosse stata preservata, non altrettanto poteva dirsi dello sviluppo dell'arto che era rimasto quello di un tredicenne.
Non poteva dirsi un disabile ma certo si sentiva tutt'altro che "normodotato". A distanza di 3 anni dall'incidente e dopo una causa civile, l'assicurazione gli aveva riconosciuto un indennizzo di 50 milioni delle vecchie lire. Rispetto ai suoi coetanei poteva vantare un bel gruzzoletto, su cui però non aveva potuto mettere le mani perché vincolato dai genitori al conseguimento della laurea.
Lui si iscrisse all'università con poca convinzione, scelse psicologia quasi a volersi curare da solo quelle ferite invisibili che gli erano rimaste dentro.
Psicologicamente scontava ancora il trauma di quell'incidente che viveva come un segno premonitore di un destino nient'affatto luminoso. E tuttavia, l'arto meno sviluppato non gli aveva impedito di mietere conquiste tra il gentil sesso. Ogni conquista la sentiva come una rivalsa, una prova della sua intatta prestanza fisica accompagnata da una sfrontata esuberanza dialettica che lo portava a ironizzare sulla sua femminea gamba sinistra. Anche Anna, la sua ex moglie, era stata irretita da questo fascino inusuale e contorto, un misto di forza e fragilità che l'aveva resa più sicura, più volitiva, più risoluta. Si erano sposati dopo due anni e mezzo di convivenza appena appreso di essere incinta. Al quarto mese di gravidanza, Anna De Ritis 35enne convolò a nozze con Giorgio Veltri 36enne. Scelsero un rito civile e festeggiamenti agresti con amici e parenti.
Lei lavorava come infermiera in un ospedale ed i suoi ritmi biologici erano condizionati dai turni, spesso notturni, cui veniva sottoposta.
Lui nel frattempo non si era laureato, aveva fatto un corso specialistico come assistente sociale e di comunità e aveva trovato occupazione in uno sportello di prima accoglienza.
Di lì passava di tutto. Ero un centro di smistamento di ogni disagio ed esclusione sociale: drogati, immigrati, alcolisti, indebitati, sieropositivi, schiave, prostitute, disoccupati e una nuova categoria che si faceva sempre più ampia: i cosiddetti nuovi poveri.
Fu proprio questo continuo venire a contatto con la disperazione degli altri che produsse in lui come anticorpo, un rassegnato senso di fugacità ed ineluttabilità che ne imbrigliava ogni energia e ogni slancio.
Giorno dopo giorno questa dose di disperazione assorbita dagli altri si era trasformata in una spina esistenziale, in un pessimismo irreversibile e in uno stato di silente sconforto.
Sua figlia Elena era l'unica luce nel buio scavato nell'anima. Mentre la moglie faceva i turni di notte, lui vegliava su di lei. Fu così che iniziò a considerare le notti come i suoi veri giorni. Amava vederla giocare, sorridere e crescere. Era la sua unica fede nel futuro, un futuro stanco e asfittico, fatto di giorni uguali e senza nome.

Le notti dell'anima - Racconto


Ci sono notti che non hanno niente a che vedere con quella parte romantica, misteriosa e sensuale del giorno, sono solo spazi bui dentro i quali si rifugiano alcune anime ferite che temono la luce, il calore, che abbracciano le ombre per sfuggire a se stesse o al proprio destino.
Certe notti segnano il letargo dell'anima, a volte avviene per un accadimento concreto, uno choc, un trauma, altre volte è solo un lento ma inesorabile scivolamento verso quella strana affezione chiamata melanconia.
Io le notti oscure le ho iniziate a curare con la scrittura. Tra le pieghe del dolore, nella ghigliottina di silenzi assordanti, piegata nel vuoto dalla pesante zavorra dei pensieri, ho trovato la forza di innestare dei piccoli germogli, le mie parole. Scrivere è diventato così un modo per riempire quei buchi neri dell'anima che riecheggiavano nelle mie notti insonni.
Normalmente scrivo per ascoltarmi, per narrarmi la vita che è o vorrei, per lasciare tracce o semplicemente per aprirmi un varco nel tempo e rallentare il flusso cui appartengo. Ma quella notte di fine agosto la curva del tempo virò bruscamente oltre i miei pensieri e mi persi dentro il racconto di un altro. Era il racconto di una resa, di una fuga, di un eclissi dal mondo. Lo imboccai quasi incosciente e mi confusi sulla scia di quei passi non miei. Quella notte indossai il suo destino e la sua volontà indolente. Lui sorrideva disincantato e mi parlava come se mi conoscesse da sempre, come se mi aspettasse da tempo. Non gli importava null'altro che il presente. "Ho perso tutto - mi disse - ed ho visto l'inferno. Oggi mi sento padrone solo del mio nome, del mio aspetto e di questo biglietto aereo che spero mi porti verso un nuovo destino, il più lontano possibile da ciò che sono stato ".
Non so perché ma mi aveva scelto, mi voleva come testimone della sua storia...
To be continued

domenica 9 marzo 2014

Il contenuto: una questione di stile

"La semplicità non è altro che una complessità risolta" scriveva lo scultore rumeno Constantin Brâncuşi. E come dargli torto, essendo riuscito a sintetizzare brillantemente, in una frase così pregna di significato, un concetto tanto illuminante.
Eppure ridurre complessità e semplicità ad una mera antitesi, ad una contrapposizione che richiede una scelta di campo non mi convince. In primo luogo perché questi termini si prestano a derive interpretative piuttosto comuni. La semplicità viene spesso associata a qualcosa di banale mentre la complessità per contro viene assimilata ad una certa profondità. Ma in realtà non c'è alcun sillogismo tra questi termini. Complessità e semplicità vanno poi messe in correlazione con i tempi. In un mondo sempre più mutevole e globalizzato, dove le informazioni crescono 200.000 volte in più della popolazione e una notizia dura meno della vita di una sigaretta, la risorsa più scarsa è l'attenzione.
Velocità ed immediatezza sembrano il nuovo paradigma della comunicazione. E ciò porta con se la necessità di ridurre la complessità, di accorciare le distanze, di contrastare la pesantezza di tutto ciò che può essere superfluo e ridondante.
Ma in tempi in cui si twitta, tagga, posta o whatsappa, in cui la complessità viene risolta con l'uso delle "k" e con un linguaggio a prova di codice fiscale, il rischio che si corre non è forse di ammalarsi di semplificazione!?!
C'è una abissale differenza tra semplicità e semplificazione, quasi come quella tra chi crea e chi duplica.
Michelangelo, arrivava a dire che “Uno scultore deve soltanto togliere da un blocco di marmo ciò che è superfluo". Bè questa immagine che descrive in modo semplice qualcosa di così mirabile come sono le sue opere, ispirate dal
"furore dell'anima", rende perfettamente il senso
dello sforzo di chi cerca di dare forma ad una propria visione, ad una idea.
Nel mio infinitesimamente piccolo, tento di fare lo stesso anch'io con la scrittura e la poesia. A metà strada tra un minatore e uno scalpellino, scavo nei pensieri e nelle pieghe dell'anima per dare un senso compiuto al mio caos.
La semplicità richiede un lavoro estenuante, arduo, meticoloso. Vuol dire fare continuo esercizio di sottrazione, spurgare le parole, non arrendersi all'ovvio, non scadere nel criptico. Vuol dire soprattutto rendersi accessibile a tutti, sfuggendo la banalità, il luogo comune, l'autocompiacimento.
E così mentre scavo, mi specchio nella poesia fino a che la poesia non mi rispecchia. Essa meglio di qualsiasi altra forma espressiva riflette la mia ambizione di anacronismo.
Nutrirmi del tempo per cercare di andare oltre. E mi piace questa sfida, l'idea di arrivare al cuore delle cose lasciando intatto il senso della loro complessità.
Per questo, nella dicotomia tra semplicità e complessità scelgo una terza via: la sintesi. Una scelta non di forma o di lunghezza. Una questione di stile.
E il mio stile è il contenuto. Dire molto, nella forma più efficace, per rispecchiarmi nell'essenza di me.


“Uno scultore deve soltanto togliere da un blocco di marmo ciò che è superfluo. La sua bellissima statua è già lì, nascosta dentro il blocco di marmo informe. Lo scultore non deve fare altro che scoprirla, togliere il marmo superfluo. La scultura è l’arte del levare”.
Michelangelo Buonarroti

domenica 9 febbraio 2014

Preferisco i tumulti della libertà ...

"Malo periculosam, libertatem quam quietam servitutem." Tacito
"I prefer the tumult of liberty to the quiet of servitude."  Thomas Jefferson

Tempi duri per gli spiriti liberi, per quelli che non vestono la casacca o l'armatura, unghie finte o lenti a contatto, che non brandiscono giornali, padelle, passeggini o telecomandi. Gli spiriti liberi amano la compagnia ma non la cercano per ingannare la solitudine, sono voraci osservatori ma non amano farsi notare, tanto meno per le loro idee, così scomode, poco confortevoli e, inopinatamente non convenzionali. Del loro modus vivendi non ne fanno un vanto o una bandiera, lo praticano nel quotidiano, nell'interazione dialettica, nella costante sensazione di 'non appartenenza', tanto indifferenti al consenso degli altri quanto preoccupati dell'assoluta fedeltà a se stessi. A domande del tipo ... "sei ateo o credente", "disincantato o sognatore", "ottimista o pessimista" probabilmente non sanno rispondere. Non è la complessità sottesa dalla domanda che li frena, né l'incapacità di prendere posizione, è solo il rifiuto della dicotomia che non li predispone alla risposta. Le loro battaglie sono spesso silenziose, perché combattute prima di tutto al proprio interno, nel dubbio, nell'incertezza, tra gli spazi grigi della possibilità di qualcosa che ancora non c'è o non si vede.
Essere uno spirito libero è faticoso, perché non c'è guida o decalogo, non è una fede, un'ideologia, è solo un'inclinazione spontanea, un atteggiamento mentale accompagnato dalla solitudine della propria coscienza.
Nell'assenza di verità assolute, di certezze confortanti, di zavorre del pensiero, lo spirito libero vive per lo più randagio seppur socialmente integrato. E mentre la società in cui viviamo cerca di aggregarci e segmentarci per sigle, colori, provenienze, età, culture e religioni, è un gran peccato che così poco valore e dignità venga riconosciuto agli spiriti liberi. Certo le società come le religioni, non si fondano ne si reggono sui dissacratori di certezze e di convenzioni, ma le individualità di cui la società è formata si costruiscono e si rinsaldano anche attraverso l'esempio di chi esplora la vita e il pensiero con libertà e creatività. È bello sapere che accanto a delle vie già tracciate ci siano anche creatori di autonomi percorsi. Questo post è stato ispirato dalle note e dalle parole della celebre canzone di Frank Sinatra " My way" , un inno alla vita e alla libertà di interpretarla ciascuno a proprio modo. Ed è quello che cerco di fare anch'io, a modo mio, da spirito libero.

domenica 2 febbraio 2014

L'assordante fragore del silenzio



Dicono che le parole fanno male...e allora i silenzi??



Non parlo ovviamente del silenzio inteso come raccoglimento interiore o quello che si può ricercare come estraniamento dal caos, ma dell'atto volontario di chi potendo parlarci decide di non farlo più. In questo caso chi si sottrae al dialogo non solo ci umilia ma ancor peggio ci nega. 
Il silenzio è una ghigliottina impietosa, la materializzazione di un'assenza, la sensazione del buio che avvolge o del vuoto che inghiotte. Non c'è dubbio interpretativo nel silenzio se non la pura e semplice negazione della parola. 
E le parole non sono che ponti gettati tra noi e gli altri. La parola quand'anche violenta o dolorosa è comunque un dono, non dice semplicemente che esistiamo ma che siamo considerati. Si pensi al potere della musica e della parola per chi è in coma, tema così ben rappresentato nel film di Pedro Almodovar "Parla con lei".
Quando non ci sono più parole allora sì che si è davvero soli. Si continua a vivere o a 
sopravvivere, ciascuno nel suo regno o nel suo stagno, con l'anima più spenta, sapendo che una parte di noi appartiene alle Tenebre. 
Come le monadi di Leibniz, "senza porte e senza finestre", impariamo cos'è la metafisica della solitudine, mentre la nostra vita si dispiega nell'assordante fragore di un silenzio.

lunedì 20 gennaio 2014

La bellezza segreta dell'imperfezione


Mi piacciono persone che sono come me, che hanno le stesse stranezze, la stessa curva di particolarità, il peso delle esperienze e una certa eccentricità. Mi piacciono persone come me, che conservano la loro bellezza nell’imperfezione, nelle tracce di non banalità.

~Charles Bukowski 



Adoro questa frase di Bukowski in cui mi rispecchio totalmente. Mi affascina soprattutto la sintesi dell'espressione "curva di particolarità" capace di dischiudere nella mia mente tutte le molteplici sfumature dell’essere e gli infiniti modi di sentire. Ma ancor di più mi piace il richiamo alla bellezza dell’imperfezione, specie in questi tempi popolati da tanti, troppi, aspiranti cloni.
Non c'è dubbio che nella dicotomia tra perfetto e imperfetto io sia assolutamente schierata per l'imperfezione. Come Karl Kraus del resto, che a tal proposito sentenziava: «Per essere perfetto gli mancava solo un difetto».
Ebbene, anch’io nutro poca simpatia per la perfezione. Sarà che mi appare algida, astratta, distante dal calore immediato che suscita la spontanea umanità. Non c'è tensione, pathos o vibrazione in qualcosa di perfetto. Un diamante ad esempio, nello splendore della sua forma e della sua luce, mi può lasciare ammirata, stupefatta forse, ma difficilmente riuscirà a toccare le corde profonde della mia anima. La perfezione insomma la percepisco così: semplicemente distante da me.
Rita Levi Montalcini nel suo saggio-biografia “Elogio dell’imperfezione” sostiene che il cervello umano, a differenza di quello degli insetti, è imperfetto ma proprio grazie a questo limite è stato capace di evolvere. Il cervello di uno scarafaggio invece, pur nella sua perfezione, non è che la copia conforme del suo antenato vissuto centinaia di milioni di anni fa. È pertanto nella capacità di cambiare e di migliorarci il segreto della nostra affascinante avventura evolutiva.
In Giappone esiste una parola Wabi-sabi, 侘寂, che può essere grossolanamente ricondotta al concetto di “bellezza dell’imperfezione”. In realtà il termine racchiude in se una visione estetica imperniata sulla transitorietà delle cose che può tradursi in "bellezza imperfetta, impermanente e incompleta".
Non so esattamente cosa sia la perfezione, ma a mio avviso la bellezza è nella personalità, nell’unicità, nel gioco dei contrasti, in ciò che rimane oltre l'apparenza. È il cogliere, nella fugacità di un attimo, l'eterno ed immanente.
Una ruga, un difetto, un'espressione, un’anomalia, sono come impronte digitali, il marchio esclusivo della nostra individualità. Noi umani, nella nostra imperfezione, abbiamo questo di bello: abbiamo rivolto lo sguardo al cielo, dato un nome alle stelle, ci siamo sforzati di ricercare un senso, abbiamo osato sfidare i nostri limiti.
In questo senso l'imperfezione è decisamente un dono. Se fossimo perfetti non avremmo motivi per cambiare nè tantomeno stimoli per evolverci. 
Insomma trovo l'imperfezione una nuova frontiera del gusto, una forma sublime di libertà d’espressione. E come tale non posso farne a meno!







Il valore delle crepe nella ricomposizione di me



Quando qualcosa di bello e fragile come un oggetto in ceramica si rompe spesso lo si da per perduto.  Per i giapponesi invece non è così. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventa più bello. L’antica arte giapponese del kintsugi consiste nell'utilizzo dell'oro e dell'argento liquido per riparare oggetti in ceramica che sono andati in pezzi. Questa tecnica non solo ne aumenta il valore ma dona una nuova vita ad un oggetto il cui difetto viene trasformato in un meraviglioso e prezioso tratto distintivo.
Ogni ceramica riparata possiede una bellezza unica rappresentata dal diverso intreccio di linee dovuto alla casualità con cui la ceramica si è frantumata.
Questa tecnica, come è facile intendere, è anche una splendida metafora della vita. Le crepe nella vita di una persona sono ferite che non ne diminuiscono il valore, ma ne arricchiscono il contenuto. Non la bellezza formale bensì il vissuto e l'unicità della propria storia diventano il segno distintivo e irripetibile di qualcosa di unico.
Ma così come la tecnica del kintsugi si basa su un procedimento lento e meticoloso, così la cura delle cicatrici dell'anima richiede un lavoro paziente ed accurato. 
Anche attraverso questo blog sto sperimentando su di me l’antica arte del Kinstugi. Invece di buttare il vaso andato in pezzi o nascondere le mie "crepe" ho deciso di mostrarle, non per ostentazione, ma come segno di un passaggio verso una nuova ed inesplorata bellezza.  

venerdì 3 gennaio 2014

Accelerazione del tempo e oblio

"Occorre dimenticare per rimanere presenti, dimenticare per non morire, dimenticare per restare fedeli."  
(Milan Kundera, La lentezza) 

Lessi questo libro diversi anni fa e mi appuntai stranamente questa frase...
“il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio” 
......allora non ne colsi pienamente il senso, ma ora mi è assolutamente chiaro. Ci sono esperienze che segnano a tal punto da non lasciare alternativa all'oblio. Ogni occasione di svago e di occupazione della mente viene vista come una 
sorta di acceleratore di particelle, capace di comprimere il tempo. 
Attraverso l’ebbrezza della velocità, ci si dimentica del passato, e al contempo si ignorano le attese del futuro. 
E così in un girotondo vorticoso, ci si abbandona per perdersi, per alleggerirsi della zavorra dei ricordi, per potersi ritrovare, nuovi, eppure fedeli a se stessi.

Oblio
Sono io
fiera della guerra persa con valore
bella nella mia anima splendente
afferro il tempo come un giocoliere 
in un deserto di schegge controvento
Leggeri come semi di cocomero
i miei passi incedono il presente
Danzo sulle punte a braccia aperte
nel girotondo che purifica la mente